Natura non morta
Non c'è più veritiera storia dell'arte contemporanea - mi sembra di poter affermare dopo una lunga riflessione sulle opere che compongono questo libro - di quella che passa attraverso i generi. Parlare del paesaggio, come in un'occasione recente, o della natura morta, come in questa, consente di chiamare a
raccolta gli artisti, al di là delle loro tendenze, verificandone la ricerca su un tema unitario. E intanto questo esterno principio classificatorio limita il campo a quegli autori che, non oggi soltanto, con i tempi favorevoli, ma già a partire dagli anni Cinquanta hanno creduto nel quadro e hanno continuato a credervi anche quando il suo piccolo spazio è stato sostituito dall'environment, da tutto ciò che stava fuori.
Così l'arte veniva a perdere un doppio specifico: quello della materia e quello dei generi. Anche oggi può sembrare piuttosto anacronistico parlare di natura morta. Le ultime che abbiamo in mente sono quelle di De Pisis, o di Morandi o, al più, di Guttuso. Poi la pittura sembra essersi orientata verso indecifrabili destini: difficile è definirne il soggetto. Essa aspira semmai a esprimere una totalità dell'esistenza, o un aspetto che ne sia il pretesto. In fondo dipingere una natura morta, oggi, non è molto diverso dal dipingere un San Sebastiano.
Eppure, una volta che se ne sia deciso il censimento, sono ancora numerosi gli artisti che la praticano: e molti rivelano un sicuro talento. Quale sarà la ragione di questa sopravvivenza? Intanto mentre assai rari (demotivati anche in ambito ecclesiastico) sono i committenti di un San Sebastiano, una natura morta non richiede committenza, dipende e discende dall'estro e dalla volontà del solo pittore. E per questo che possiamo considerarla un'unità di misura attendibile, attraverso la quale verificare valori e visioni della realtà.
Per quanto diversa sia stata la storia personale, per quanto lontana la formazione, per quanto divergenti le motivazioni di ogni artista tutti trovano nella natura morta lo specchio nel quale riflettere intera la loro poetica. Il "genere" è un esercizio della forma, il luogo nel quale calare la propria ideologia della pittura. La natura morta non impegna la vita, non coinvolge direttamente le emozioni, ma consente una mediazione nella quale l'arte trova il suo spazio. Il "genere" ha un valore istituzionale, è il veicolo della forma. Così, attraverso il filtro della natura morta possiamo ripercorrere un'inedita storia dell'arte italiana dal 1950 a oggi.
Il percorso inizia con Franco Francese entro il territorio della pittura d'azione che fa corrispondere il gesto al segno: una pittura di esistenza oltre i generi. Francese insegue un'ossessione, sia essa cosa o volto. Per lui la materia della pittura respira, è l'immediata continuazione della vita. Una sua vanitas è natura, istinto, passione, non elegante e colta riflessione sopra un motivo classico. La tensione di Francese si pone su uno dei vertici di questa storia. Agli altri artisti della stessa generazione potremo subito guardare per contrasto. Pensiamo per esempio a Carlo Guarienti: le sue immagini sono rarefatte, distanti, profondamente intellettuali: in esse l'esistenza appare depurata, allontanata; ogni passione, ogni impulso, ogni conflitto appare frenato. Gli stessi oggetti perdono la loro corporeità per diventare idee, essenze geometriche, anche se riconoscibili nelle apparenze di oggetti quotidiani. Se in Francese sentiamo l'urto del corpo, la mano che entra nella pittura, in Guarienti sentiamo il distacco della mente che riflette, che controlla, che seleziona. Dall'imminenza fisica si passa allo spazio metafisico.
Nei due artisti sembra quasi riprodursi, a distanza di secoli, la medesima dialettica che agli inizi del Quattrocento vedeva opposti Masaccio e Domenico Veneziano. Da queste due grandi strade non è difficile veder discendere per affinità o filiazione altre personalità che si schierano dalla parte della passione o dalla parte della ragione.
Di viva carne trasportato in materia pittorica, rosea gota o ferita aperta, sono fatte le rare, individue, frutta e verdura di Paolo Vallorz. Pittura vibrante, bruciata, innamorata, immersa in se stessa, tautologica infine, essa trova in ogni cosa un'occasione per dichiararsi, scoprirsi, far mostra di sé.
Vallorz riconosce le proprie radici, la sorgente nella pittura di Gustave Courbet: ciò che è stato prima e che è venuto dopo non gli interessa, così come non lo seducono complicazioni esistenziali o psicologiche.
Una variante neoespressionistica dell'esistenzialismo di Francese, con un virtuosistico e spesso compiaciuto amore per la materia, identifichiamo senza difficoltà nell'altro lombardo Giancarlo Vitali, sensuale, eccitato, ma, diversamente da Francese, perfettamente calato nel genere. Vitali corteggia la materia e in essa si immerge con euforia, esaltazione, ebbrezza anche nel soggetto più macabro, rivitalizzando i modelli di Chaìm Soutine e di Willy Varlin. E mentre in Francese c'è drammatica riflessione sul destino dell'uomo e sull'inquietudine della esistenza, in Vitali c'è una vitalistica esaltazione degli umori istintivi dell'uomo, dei suoi slanci; della sua felicità, infine. Da una riflessione leopardiana su amore e morte, tradotta in esistenzialismo metropolitano, si passa a un'euforia degli occhi e dei sensi, di ispirazione fauve. Ecco come all'interno dello stesso filone si evidenziano precise opposizioni. Le stesse che ritroviamo dall'altra parte ravvisando in Armodio una ricerca che ha esterne affinità con quelle di Guarienti. Ma, a ben guardare, essa si caratterizza, poi, per un'accentuazione di rigore formalistico, di sottili eleganze, che trasferisce la concentrazione razionale di Guarienti, la sua calibrata misura, in decorazione. Anche in questo caso assistiamo a saggi di elegante virtuosismo, che sollevano l'immagine da una troppo elaborata problematicità per ricondurla entro la misura di una più facile comunicazione, in una sottile sensualità dell'intelletto.
Armodio gioca con Klee, lo sigilla in decorazione. La sua consapevole qualità grafica addolcisce le algide atmosfere di Guarienti, ne intenerisce le idee.
Su altre frontiere avviene il conflitto fra due visioni intellettualistiche: l'una legata all'immediatezza dell'immagine come liberazione di un'impressione istantanea, in analogia con il momento in cui si definisce su una polaroid la realtà fotografata: e penso a Mario Schifano, alla sua parlata veloce, alla sua rapacità che può appropriarsi anche della natura morta, così come del paesaggio, senza rimanerne impigliata; l'altra ossessivamente legata alla definizione dell'immagine, in un realismo metodico e iperpercettivo come in una riproduzione fotografica conseguente a una lunghissima esposizione luminosa per cogliere ogni minimo particolare: e penso a Gianfranco Ferroni. C'è in entrambi, in Schifano e in Ferroni, così opposti, così incomunicanti, come una matrice esistenzialista, ma non legata alle ragioni ultime, al confronto con la morte, di Franco Francese; bensì al malessere del vivere, a quello stato di insoddisfazione di fronte alla realtà perfettamente espresso in una celebre pagina della Noia di Moravia: "La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l'effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta a un dormiente, in una notte d'inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente.
Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all'interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c'è più che buio e vuoto.
Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all'appassimento e alla polvere.
"Il sentimento della noia nasce in me da quello dell'assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterei un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti".
Essere inadeguati, parziali, incompiuti: questo è quanto vogliono esprimere Schifano e Ferroni nei loro diversissimi linguaggi; l'uno inserito sull'asse della Pop Art, tra Allen J ones e Warhol, l'altro sospeso tra la nuova oggettività tedesca, l'iperrealismo americano e, finalmente, verso esiti di suprema qualità, i realisti spagnoli, in particolare Antonio Lopez Garda, altro grande rappresentante di un'inappartenenza - e di una continua insoddisfazione, anche formale - di carattere esistenzialistico.
Logico che, a fianco di queste prove, prospettino versioni più aggraziate e ingentilite, meno dure e più elegiache, artisti come Giuseppe Banchieri e Claudio Bonichi. Il primo che arricchisce, complica, riempie lo spazio essenziale, disadorno, alienato di Gianfranco Ferroni per farne il luogo di una rappresentazione
teatrale di cui gli attori, muti, sono gli oggetti e qualche rinsecchito residuo vegetale o animale; il secondo che rende tanto rarefatto lo spazio da non definirlo, o eliminarlo, lasciando i suoi oggetti o frutti sospesi in un vuoto fatto solido entro un'intuita indicazione prospettica. I risultati in entrambi i casi puntano verso una delicata malinconia crepuscolare. Soprattutto in Bonichi la rarefazione degli elementi contro il vuoto sfiora un'aura metafisica che trasfigura l'impietosa, crudele oggettività di Gianfranco Ferroni.
Quanto al fronte Schifano non si può affermare che altri suoi compagni di strada abbiano saputo seguirlo nella così cosciente e dissacratoria riabilitazione dei generi, anche se andrà fatta menzione della grande impresa compiuta sui frammenti, diventati monumenti, di Domenico Gnoli. E a questa particolarissima interpretazione che possono far capo, per comodità di classificazione, le poetiche di Franco Sarnari e Randall Morgan. Del secondo basterà ricordare l'ingrandimento degli oggetti, in un'abbacinante luce mediterranea: il ritmo, lo spazio, i rapporti architettonici degli elementi della composizione sono un esercizio quasi astratto, per Morgan, che va oltre la natura morta riducendola a puro pretesto.
Franco Sarnari invece, immette un respiro umano, un palpito, una vibrazione nei piatti, nei vassoi, nelle tazzine, così frigidi nei dipinti di Morgan, restituendo naturalezza agli oggetti, già così prosciugati, pietrificati e immobilizzati da Gnoli. Lo sguardo di Sarnari non è fisso, trema, si muove, sia pur lentamente. La luce, per Gnoli, come più epidermicamente per Morgan, è sempre la stessa, oggettiva, mentale, assoluta. La luce per Sarnari è lieve, pomeridiana, scende sulle cose come una carezza, appartiene al tempo. Le cose e i corpi non esistono, se non nella luce che li rivela, prima ancora che nell'occhio che li vede. In questo l'esperienza di Sarnari, oltre che non metafisica, è anche antiidealistica, tendendo a ridurre la funzione del soggetto a una registrazione dell'essenza e delle qualità dell'oggetto.
Ma l'obiettivo estetico di Sarnari è più complesso. Egli punta a schiacciare, in questo simile a Gnoli, il limite che separa la figurazione dall'astrazione, la riproduzione del reale dalla sua riduzione a forma delle idee. Eppure l'epidermide dei suoi quadri resta viva, mobile, vibra di luce come in una memoria impressionistica contraddetta dal taglio, tutto mentale, delle immagini. In un certo senso il modello diriferimento per Sarnari è Georges Seurat.
Verso una decisa riassunzione del modello di Gnoli, in una metafisica che approda all'astrazione, possiamo situare Giorgio Tonelli. La sua partenza è tra la nuova oggettività (in particolare Grossberg), i realisti americani (in particolare Wyeth e Gillespie), e l'immagine bloccata di Gianfranco Ferroni. Eppure la desolazione dei suoi interni e la materia, più spessa, meno rarefatta, meno macerata di quella di Ferroni, rivelano una suprema indifferenza per il soggetto che, in avvicinamenti progressivi, sparisce per evidenziare come "natura morta" lo spazio, in esiti assolutamente mentali che stanno a metà strada fra Gnoli e Guarienti. La rarefazione sembra anche il punto d'arrivo delle decantate, sobrie, antiretoriche, eppure non meno di quelle di Sarnari vibratamente pittoriche, nature morte di Dino Boschi. Anche in lui il realismo trasvalora in essenza, si depura, si semplifica come per liberarsi di un peccato originale. Quello che non
teme invece, con la franca soddisfazione del bell'effetto, Giorgio Scaleo, oggettivo, tranquillo, con grande mestiere e coscienza di una tradizione dove le cose devono stare alloro posto. In lui non ha luogo il germe del dubbio che tormenta da sempre la ricerca di Boschi. Le cose, i frutti, il tovagliolo posano serenamente, compostamente sulla tavola; e dietro si alza un fondo uniforme. Non può fare lo stesso, figlio della stessa crisi che tormenta la figurazione di Boschi, Sergio Saroni, raffinato quanto perplesso, oscillante fra i poli di Wyeth e Lopez Garda, tra realismo e esistenzialismo con risultati di grande e sempre frenata sensibilità; per una reticenza a dire fino in fondo, anche nell'evidenza delle cose, che è l'estremo frutto della sua lunga stagione informale. Al suo opposto, con un pur sapiente troppo finito, si situa Mauro Chessa che sembra superare ogni problema in nome di un ottimismo della volontà: la realtà deve essere come la vedo, come la semplifico. Tutto è chiaro, nitido: la prospettiva è frontale, gli oggetti sono ben inquadrati, le loro forme sono ben riconoscibili; le ombre cadono al punto giusto, senza incertezza, gli ambienti sono ben definiti.
Sull'indefinitezza del fondo si misurano alcune profonde diversità. Sono quelle che fanno, come immagini di un sogno, vaghe e sfuocate le nature morte di Mario Fallani e che creano quell'aura dolcemente crepuscolare, ma anche sottilmente colta, di Piero Vignozzi. La casa nel giardino, gli alberi, le statue, i fiori, il malinconico contrasto fra il bianco delle pietre e il giallo delle foglie che accomunano le tematiche dei due artisti, hanno lasciato lo spazio, nelle ultime opere di Vignozzi, a una più intensa concentrazione degli oggetti. Assistiamo al processo dell'uscita dall'indistinto verso il definito, con una luce più fredda che s'incide sui muri, sulle lastre di gesso, sulle piante di miseria. Ma negli esiti migliori Vignozzi sfiora la metafisica rarefazione di uno Yuri Kuper.
Chiusa con Saroni e con Vignozzi la pagina della natura morta come interpretazione lirica e in chiave elegiaca della realtà, possiamo aprire il capitolo relativo al realismo storico nel quale il posto di primo piano è occupato da Riccardo Tommasi Ferroni. La proposta di questo artista, nella natura morta come nella pittura di storia da lui rimessa, senza esitazione, in vigore, è propriamente anacronistica. Ma non nel senso attribuito a questa parola da alcuni rappresentanti delle nuove tendenze, perché andrà in ogni caso, e preliminarmente, ricordato che Tommasi Ferroni pratica questo genere dì pittura da qualche decennio e che non ha mai neppure per un attimo pensato che vi fossero altre strade oltre a questa (restando imperterrito durante le più inclementi tempeste dell'avanguardia che fecero di lui anche un capro espiatorio). Il problema per Tommasi Ferroni è la competizione della pittura con la realtà, sul piano dell'immagine, e il confronto con la storia, sul piano della forma. Così, il risultato deve essere tale da non lasciare nostalgia delle cose vedute, interamente trasferite, aspetto, umori e atmosfera, nell'opera d'arte, e nello stesso tempo da non far rimpiangere la qualità dei pittori antichi. Tommasi Ferroni vuole il confronto con i grandi secentisti, in particolare con Caravaggio. Le sue nature morte non aspirano a stare a fianco di un Morandi sulle squallide pareti bianche di un Museo di Arte Moderna, ma a confondersi con i dipinti di Recco, di Ruoppolo, di Orazio Fidani in una quadreria patrizia sul genere della Galleria Spada, magari in quarta fila, in alto. La somma di queste aspirazioni punta all'effetto di stupore, secondo il precetto marinista (potenziato nel caso di un artista moderno): "è del Poeta il fin la meraviglia, / (parlo dell'eccellente e non del goffo), / chi non sa far stupir vada alla striglia". Lo stesso può esser detto per un estremista della medesima tendenza, ostinato "generista", specializzato in nature morte di sonora evidenza, Luciano Ventrone. Non c'è in Ventrone l'ambizione della qualità degli antichi, ma di un'apparenza che ne rinnovi e ne amplifichi lo stupore. Il rombo cromatico dell'immagine si rifrange contro il compatto silenzio del fondo nero in un'esaltazione che reclama la stupefazione e, in taluni, l'ammirazione. La natura morta diventa un'espressione universale del mondo, con un'eloquenza inaudita, che non va confusa né con l'iperrealismo, di cui non possiede lo spirito di deformazione, sotto apparenze fotografiche, né con la pittura di emulazione dell'antico. La materia di Ventrone è impalpabile, trasparente come se fosse illuminata da dietro, più vicino alla diapositiva che alla fotografia, ma con una costante deformazione anamorfica e un'implacabile freddezza che denuncia la provenienza di base "concettuale" dell'operazione di Ventrone, mascherata, come è nel caso di Carlo Maria Mariani, sotto le apparenze della citazione classica. E dunque, quello di Ventrone, con il grande riscontro di interesse popolare che ha destato una così scoperta ripresa della natura morta, un tipico esempio di "pittura colta".
Qualcosa di analogo aveva sperimentato qualche tempo prima anche Gianni Cacciarini, altro rigoroso generista che ha preferito non confrontarsi con il tema aulico della tradizione, ma con alcuni oggetti della vita quotidiana, come macchina da scrivere, ventilatori, telefoni, teiere, bottiglie da farmacia, indulgendo semmai a un repertorio tecnologico un po' antiquato, con il sapore dei primi del secolo, in accordo con le sue origini fiorentine. Ma il taglio dell'immagine è sempre rigoroso, geometrizzante, come se, in tralice, le composizioni, mutati gli oggetti, riproducessero il ritmo morandiano. Ma anche Cacciarini punta all'effetto, alla competizione con la realtà, a un realismo oggettuale. Quanto lontano siamo con Ventrone e Cacciarini dalle quintessenze di Gianfranco Ferroni!
Più complessa è la ricerca, con la conseguente ambiguità dell'immagine (talvolta perfino arcimboldesca), di Silvano Gilardi. In un certo senso, già l'eccessiva evidenza, l'esagerazione di effetti volutamente barocchi di Ventrone oscillava verso il surrealismo; ancora di più questa tendenza si manifesta in Gilardi. Due questioni fondamentali pone la sua pittura: la prima è quella del realismo, la seconda è quella dei generi. L'apparenza infatti denuncia cose riconoscibili, montagne, cieli, alberi, o frutta e fiori diversi: mele, pere, agrumi" garofani e altre varietà botaniche, ma la nostra mente non registra, con il procedimento della memoria attiva, immagini che conosce, e nemmeno forme consuete. Gilardi dipinge con minuziosa 'fedeltà un'idea universale di natura rappresentando non ciò che vede ma ciò che sente, il suo sogno delle cose, il suo mito sotto specie di paesaggio o di natura morta. Diverso è dipingere una montagna, diverso è dipingere l'idea della montagna. In un certo senso Gilardi ripropone l'antica disputa medioevale sugli universali. La questione è quella indicata da Porfirio nella sua introduzione alle Categorie di Aristotele: "Intorno ai generi e alle specie, non dirò qui se essi sussistano oppure siano posti soltanto nell'intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni". La soluzione prescelta da Gilardi non è quella "realista" ma quella "normali sta" , secondo la quale l'universale è un segno delle cose stesse e sta in luogo di esse. Quanto a dire, sul piano dell'estetica figurativa, che per Gilardi la pittura sta al posto della realtà.
Ecco perché il reale non ha nulla di realistico, è un'invenzione che parte da un pretesto, da una nozione convenzionale della natura. Con lo stesso spirito Gilardi affronta ora la natura morta. Niente di più lontano della sua idea di mela dalla mela reale. Come prima il suo soggetto principale era il paesaggio, ora lo è, essenzialmente, metodicamente, la natura morta. Si tratta, in questo caso, di un doppio nominalismo, o di un nominalismo "orientato" sui generi. Dopo aver sperimentato il genere del paesaggio con le sue infinite possibilità di invenzione, Gilardi affronta il genere della natura morta con la stessa insistenza, ossessione, tenacia. Ma erano veramente paesaggi e sono veramente, ora, nature morte? La superficie che vediamo è porcellanosa, specchiante, traslucida. Benché l'esecuzione sia meticolosa, non è possibile nessun equivoco con la realtà esterna, nessun rimando alla fotografia, nessuna ambiguità da trompe-l'oeil. Resta da spiegare perché, nella sua mitologia botanica, Gilardi non definisca mai un ambiente chiuso, un interno, il luogo ideale e deputato della natura morta. E' questa la seconda questione che egli affronta: quella che si è detta all'inizio, dei generi. Ricordiamo, benché con un altro spirito, l'idea di Filippo De Pisis, di dare aria, di porre en plein air la natura morta, togliendola all'angustia degli ambienti chiusi. Con uno spirito manieristico, con un gusto della deformazione che sfiora, senza mai toccarla, l'anamorfosi, Silvano Gilardi immagina la natura morta nella natura, fonde le sue visioni di lontananze paradisiache, di azzurri infiniti con il repertorio di fiori e di frutta che abbiamo sempre trovato sui tavoli e nelle ceste in una luce d'interni con forti chiaroscuri, secondo la lezione caravaggesca.
Con grande naturalezza come deposti nel giorno della creazione, stanno sulla riva di un fiume, contro ghiacciai, su morbidi tappeti erbosi, le pere, le mele, i fichi, gli iris, le peonie; convivono oltre le stagioni. Così il genere della natura morta viene rimesso in discussione, perde la sua connotazione di genere per diventare una visione globale, un'idea universale.
Mi sono dilungato su Gilardi perché, benché i suoi risultati non siano sempre i più suggestivi, la questione che egli pone è abbastanza significativa dell'importanza che può avere per un pittore del nostro tempo il recupero della natura morta. Spostandoci da queste plaghe parasurrealiste vediamo che lo stesso religioso rapporto con il genere, diventato totalità, si ha in Bruno Caruso. Siamo nell'area di quello che può essere definito un realismo quieto, in una visione moderna, in un'interpretazione moderna (e non antichizzante o emulativa) della pittura di qualità. Caruso è minuzioso, sottile, intrigante, ma non ha la psicologia del falsario. Per lui la natura morta è un pretesto per un esercizio di stile, del suo stile, come lo era per uno Schifano. Ma Caruso vuole dipingere una mela, una foglia, un cesto, non la loro idea o la loro forma germinale. Egli modernamente ripropone la dichiarazione programmatica di Caravaggio secondo il quale: "tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figura".
Una diversa, ma analogamente totale dichiarazione di fede nello stile e di amore per la pittura, fuori di un facile realismo,' viene dal pittore spagnolo, ma lungamente attivo in Italia, José Ortega. Se per Caruso la chiave della pittura era il disegno, per Ortega è il colore. Ma in entrambi sono evidenti il calore, la passione, l'istinto contro ogni intellettualismo. Così la natura morta non è il campo per una dichiarazione programmatica, ma uno dei tanti modi in cui si dichiara lo stile.
Da solo, ma sulla traccia di questo realismo quieto, senza dichiarazioni, come espressione di una manualità che ha in sé la coscienza della forma, sta lo scultore Ernesto Ornati, con le sue, umanissime, nature morte in terracotta policroma. Ornati non compete con la realtà attraverso il realismo, ma con la vita, come i grandi plasticatori dei sacri monti, espressioni di arte colta e insieme popolare, in quella sintesi rara che a pochi, nell'equivoco tra natura e artificio, è dato raggiungere. Si potrebbe dire che Ornati sta in un impossibile equilibrio fra i due opposti virtuosismi, da lui mediati, di Giancarlo Vitali e di Luciano Ventrone.
Un analogo problema sembrano porsi due giovani pittori usciti dall'esperienza dell'arte concettuale, Aurelio Bulzatti e Maurizio Ligas. Per loro, come per Lino Frongia, la ripresa della pittura va interpretata in senso letterale come opposizione e superamento delle avanguardie per recuperare il mestiere nel rapporto diretto con la pittura. Occorre ricominciare a dipingere un corpo, a restituire il calore della carne, occorre riguardare un paesaggio, una natura morta, alcuni oggetti sparsi su un tavolo. In questo senso Aurelio Bulzatti sa che affrontare un soggetto così banale senza il supporto della citazione, della storia, dei rapporti spaziali ai limiti dell'astrazione, delle atmosfere velate è un impegno molto grave che può condurre al rischio della banalità. Ma la pittura deve sfidare e vincere anche il soggetto più trito, un vaso, un candeliere, tre fichi: non solo per l'organizzazione compositiva ma per la sua stessa materia. Avvertiamo che, come nei pittori antichi, sia pure attraverso la mediazione della Scuola Romana, in Bulzatti la materia pensa la forma, la costruisce, ne è il fondamentale elemento costitutivo: una materia che pensa, che genera la luce e con essa si amalgama. I risultati hanno una sensualità insolita, una vita pulsante, una vibrazione, un'emozione che nulla condividono con l'immagine fotografica o con un richiamo esterno e riconoscibile alla grande tradizione del passato. Perché il problema è ricominciare là dove il percorso si è interrotto, dove la pittura si è fermata, tra De Chirico, Scipione, Mafai e Pirandello. Occorre pazientemente ricominciare da capo, non misurarsi con Caravaggio, non competere con la storia del genere, neppure con le sue estreme conseguenze moderne, in Morandi; bensì ritrovare il metodo.
Con maggiore ideologia, invece, Maurizio Ligas sembra voler risalire proprio a Morandi, alle sue tonalità attutite. Anche Ligas ritenta il gesto della pittura, ma con una più forte contaminazione letteraria, con un più scoperto riferimento alle fonti, in particolare alla metafisica, ai suoi ampi spazi deserti, ai suoi incastri di architettura e oggetti. Le nature morte per lui sono anche gli edifici, i capannoni industriali, i condomini, ingentiliti dai colori chiari e puliti, di materia densa e uniforme, senza la sensualità di materia di Bulzatti. Molto ha agito su di lui la suggestione del Morandi metafisico che ha mandato riflessi, su un'altra strada, anche su Giuseppe Biagi.
È questi un artista di grande eleganza e misura, attentissimo all'equilibrio dell'immagine, alle vibrazioni di una superficie mai inerte ma sempre scavata, graffiata. Anche per Biagi la materia è una funzione della luce, esprime una chiarità d'alba, una limpidezza di visione, come dalla parte delle essenze, un progressivo disvelamento delle cose. La realtà è filtrata, allontanata, dimenticata; soprattutto non è come appare. Con maggior freddezza, senza pathos, senza mito, Biagi usa il medesimo procedimento di Alberto Savinio capovolgendone i termini: non più i mobili nella vallata, ma gli alberi, le colline, il paesaggio dentro la casa, sul tavolo, come nature morte.
I due poli dello svolgimento di Biagi sono Morandi e Gnoli, quest'ultimo sia nell'illustrazione grafica, sia nella pittura. Ed è singolare che possa essere indicata e verificata questa affinità, dal momento che Biagi rinuncia a uno degli elementi più tipici di Gnoli che è l'isolamento e l'ingrandimento del particolare. Tutto sta invece per lui in regolari proporzioni, in calibrati rapporti. Nondimeno l'affinità resta, ed è una scelta dichiarata da parte di Biagi. E interessante osservare, arrivati a questo limite generazionale, che le posizioni si radicalizzano, in maniera anche più evidente, nel confronto sul genere.
Così se Biagi rappresenta una posizione intermedia, all'opposto di Bulzatti e Ligas si pone Giuseppe Salvatori con le sue calligrafiche nature morte depurate della materia, che si equivalgono siano dipinte a colori o in bianco e nero, ostentatamente rinunciando alla riproduzione della realtà cui si accontentano di alludere, senza alcun virtuosismo. Se mai, Salvatori può imitare il disegno della realtà, o alludere alla pallide incarnazioni della natura morta di Octavianus Monfort. C'è quindi molta grazia, compostezza, armonia nelle sue immagini delicate; la vita, i sapori, gli odori sono distanziati, cancellati, nemmeno allusi. Ritornano invece, con mediterranea sensibilità, sotto una luce violenta, intensa, penetrante, nelle nature morte di Franco Polizzi, più giovane rappresentante, con Piero Guccione e Franco Sarnari, di una non programmata "Scuola di Scicli" che in Sicilia riconosce la sua identità. Un quadro come Luce sugli oggetti, con il suo ardito impianto prospettico, e con la scintillante evidenza luminosa, carica di atmosfera, tenta un affettuoso congiungimento fra Pierre Bonnard e Piero Guccione. Ci sono intelligenza compositiva e amore per la materia in Polizzi; ci sono tenerezza e istintiva sapienza, ci sono intensità cromatica e delicatezza luminosa.
E ci sono invece ardore, fuoco, combustione della materia, tragica sensualità verso il buio, la notte, la morte in Piero Pizzi Cannella. In lui possiamo dire che convivono, in un'impossibile sintesi, alcuni aspetti della Scuola Romana, in particolare Scipione, e i tagli di Gnoli.
A calibrate, fredde composizioni si sovrappone una superficie calda, terrosa, ma senza grazie pittoriche, e invece piena di impulsi, di rabbie. Sentiamo l'oppressione di una stanza entro cui non giunge luce se non da uno stretto spiraglio che attraversa la penombra e accende scintille. La pittura sale da una profondità senza respiro, come da un fondale su cui si sono posati detriti, dissolvendosi in fanghiglia. C'è qualcosa di imminente, di tragico, di apocalittico, e anche di compiaciuto, nelle nature morte di Pizzi Cannella; c'è un messaggio dall'aldilà della pittura e della stessa vita. Lontano da Bulzatti, da Biagi, da Salvatori, da Polizzi, lontano da tutti, Pizzi Cannella è solo. Con lui si chiude, non questa esemplare vicenda della natura morta, ma la fiducia stessa nella pittura, sia pur nell'estremo tentativo di riproporla. Quanto lontani sembrano i Ferroni, i Sarnari, i Ventrone di fronte a questa devastazione, a questi postumi di un incendio. Nel prevalere delle ragioni dell'esistenza, delle urgenze degli istinti sulle grazie e l'eleganza della bella pittura, Pizzi Cannella, trova un ideale punto di incontro soltanto con chi, sdegnoso non meno di lui, stava all'inizio di questa storia, Franco Francese. Come s'era, aperta, così si chiude. Con rabbia, con angoscia, con disperazione, ma ancora - e pur vive! - dentro la pittura.