GIANNI CACCIARINI
Prima di dedicarsi alla pittura Gianni Cacciarini pensava di fare l'architetto; ma a quel lavoro egli consacra soprattutto i primi anni dopo la laurea (suoi, ad esempio, i progetti della chiesa di Santa Maria Madre della Chiesa a Pisa e per l'altare della cappella Castellani in Santa Croce, inaugurato nel 1973), senza tuttavia mai rinnegare quella formazione che riterrà anzi importante per la sua poetica d'artista. Così, già ai tempi in cui frequenta l'università di Firenze - città dove è nato - seguendo con particolare interesse i corsi di Leonardo Benevolo, Cacciarini apprende l'incisione dall'amico Wairo Mongatti, allievo di Morandi, indirizzato ed incoraggiato anche da Roberto Coppini, che lo presenterà poi, qualche anno dopo, a Pietro Annigoni. A quel tempo dipinge anche grandi pannelli, con particolari ingranditi dalle scene delle Battaglie di Paolo Uccello - "quasi un lavoro da architetto" come lui stesso li definisce -: con questi vince nel 1972 una borsa di studio per i giovani artisti del Comune di Firenze. Ma, per tutto il decennio, Cacciarini preferirà approfondire l'incisione, prima di tornare alla pittura con modi e temi assai diversi.
Del 1973 è la cartella di sei incisioni - Le viti - presentata nella galleria dell'antiquario Giovanni Conti, dove si svolge il primo contatto dell'artista col pubblico. Immagini che "non ammettono mediatori" essendo di per sé una "compiuta realtà di linguaggio", osserverà Luigi Baldacci nel testo che accompagna la raccolta; ma a voler commentare quei 'fili di ferro, giunchi, legacci che stringono o tralci addormentati nell'inerzia invernale e legni impassibili politi come antiche selci", si potrà evocare la loro drammaticità che suggerisce "una forma contenuta e compressa, il senso d'una prigionia provvisoria". Baldacci vi scorge inoltre "tante possibilità, tanta ricchezza di colore nella suggestione tattile delle superfici" e loda il saper far "opera novissima e modernissima (nell'impaginazione degli oggetti, nell'ossessivo fuoco dell' obbiettivo) affidando all'artigiana esperienza della mano la prima responsabilità del fatto artistico". Queste doti saranno anche apprezzate da Pietro Annigoni che, nel 1976, presenta un'altra raccolta di Cacciarini, edita da "Il Torchio" di Milano, Le fabbriche: incisioni la cui "tecnica esemplare non lascia margine a incidenti di acido o sorprese di stampa", dove "edifici derelitti, muti di amara sorpresa", "sembran quasi sospendere il processo di sfaldamento ed arrestarsi fuori dal tempo in un'atmosfera limpida per dar modo di ricordare, di rimpiangere, di porci domande". Gianni, contemplando quelle strutture, si dice suggestionato, in un tempo di produzione di massa in cui "l'uomo non può più identificarsi col proprio lavoro", dal loro apparire "come vecchi utensili in disuso", da "quel senso di cosa abbandonata, dal "bilanciarsi sottile di presenza-assenza".
All'attività di incisore per la quale ottiene i primi riconoscimenti (nel 1974 vince il premio della critica e dei grafici iugoslavi alla IV Biennale Internazionale della Grafica di palazzo Strozzi, nel 1976 è segnalato da Renzo Biasion per il catalogo Bolaffi della grafica e, da quell'anno, figura nel catalogo della galleria antiquaria Prandi di Reggio Emilia), Cacciarini accosta ora lo studio della pittura, sotto la guida di Annigoni, che lo esorta a cimentarsi proprio scorgendo le possibilità insite nel bianco e nero, già rilevate da Baldacci. "E' stato Annigoni a persuadermi - ricorda Gianni del suo maestro - avvicinandosi in modo discreto e affettuoso, mi ha aiutato a esprimere quel che avevo intuito dentro di me; con grande sensibilità, non ha mai interferito nelle mie scelte"; così, tutt'oggi, Cacciarini è solito dipingere, la mattina, alcune ore nello studio di Annigoni, a pochi passi dal suo proprio, non per sentimentalismo, ma perché quei luoghi ancora lo ispirano, lo dispongono alla concentrazione.
Sarà Maria Pia Gonnelli, nel gennaio del 1978, ad offrire a Cacciarini la prima occasione di esporre le incisioni in una personale alla Libreria Antiquaria: oltre alle Viti e alle Fabbriche, si trovano le prime nature morte e vedute urbane, scorci di muri di Firenze, ed il catalogo accoglie i testi di Baldacci, Annigoni e Cacciarini, già ricordati. Egli partecipa inoltre alla IV Rassegna della grafica di Forlì (organizzata dal centro Internazionale della Grafica di Venezia) e alla Biennale nazionale di Arte Figurativa di Imola e, nel novembre, espone alla galleria "La Papessa" di Roma.
Nello stesso anno la grafica di Cacciarini figura alla mostra newyorkese New talent in Printmaking, della Associated American Artists, che già da qualche tempo acquistava sue tirature: e la sua opera piacerà molto al collezionista John Rosenwald che, in seguito, chiamerà l'artista per scegliere gran parte dei suoi lavori(ora nelle collezioni della National Gallery di Washington). L'esperienza figurativa americana ha d'altronde un certo rilievo nella formazione di Gianni; infatti, oltre a prendere lezioni dall'incisore Denis Olzen, egli è assai influenzato dalla pop-art: un riferimento che trapelerà molto anche nei dipinti. Natali, nel catalogo del 1988 Dieci anni di acquisizioni del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi (le prime incisioni di Cacciarini furono acquistate nel 1978), osserva che, sebbene la pop-art possa apparire estranea, nel suo carattere dirompente e clamoroso, alla natura intima del nostro, all'eleganza austera e alla discrezione espressiva delle sue opere, "certi ingrandimenti improvvisi sugli oggetti quotidiani l'insistita precisione delle scritte di marche industriali, l'accostamento di cose familiari cariche di oggetti alla volgarità di simboli consumistici", hanno la loro matrice formale, per ammissione deÌlo stesso Cacciarini, proprio in quegli esempi d'arte americana. Ma l'interesse per l'arte contemporanea, anche inglese (specie per Bacon, Freud e Hockney) convive sempre con il colloquio costante con antichi maestri, tra cui i prediletti sono Pontormo, Rosso, Rembrandt, Caravaggio, Velasquez,Vermeer, Chardin, Turner, Ingres.
Dal viaggio in Inghilterra nel 1978, compiuto insieme all'amico Roberto Coppini, nasce la Suite inglese, composta da poesie di Coppini e da quattro acqueforti del Nostro, che non "illustrano" le poesie di Coppini (sono infatti assenti i paesaggi descritti da quest'ultimo), ma, per via analogica, esplorano un mondo immobile di oggetti, di piccole cose ov'è l'essenza di gusto inglese: fiori di carta e di vetro, paralumi leggeri e pesanti, trombe di vecchi fonografi, ferri battuti e calamai di cristallo, che Sisi assimilerà (nel 1989) agli "scandali sottomarini di Odilon Redon". Per la presentazione di quell'opera raffinata, edita dalla stamperia "Il Bisonte", Maria Luigia Guaita allestisce anche, nel gennaio del 1979, una personale di Cacciarini. Renzo Federici nel recensire la mostra su "Paese sera", osserva come, nella discesa alle minuzie, in quella luce d'alchimia, tra i relitti del nostro armeggiare, i frammenti di architetture o gli squarci di vecchi muri "le cose lentamente acquistano una magia insospettata", senza che intervenga nulla di esorbitante poiché "è la stessa tensione febbrile che le tramuta in alcunché di ricco e strano, di sommerso, velato di sorde ed insieme soavi risonanze"; così, nel dialogo tra quegli oggetti, che Cacciarini con discreta regia orchestra, nei rapporti "fitti di ammicchi pur nella quiete ormai definitiva", paiono svolgersi "drammi a cadenza lentissima" .
Nel 1980 giunge il momento della prima mostra di pittura, allestita alla Galleria Vallardi di La Spezia: quasi una sorta di "prova generale", dell'esposizione alla Galleria L'indiano di Paolo Marini a Firenze, che, anche nel ricordo di Gianni, fu la prima importante verifica del suo lavoro. Tuttora fondamentale per intendere la poetica di Cacciarini resta lo scritto introduttivo al catalogo di Carlo Ludovico Ragghianti, dove si dissipa sul nascere l'equivoco del trompe-l'oeil che avrebbe potuto attribuirsi a quelle, opere se considerate con sguardo distratto, o non colto: è assente infatti "la casualità o l'insignificanza o la banalità compositiva del trompe-l'oeil, poiché quelle nature morte sono composte in "organismi propriamente architettonici", e dunque, secondo l'esempio di Chardin o Morandi, "non oggetti, ma panorami di edifici di misura palmare" dove "una disciplina rigorosa e limpida investe ogni parvenza e la immobilizza, la cristallizza". Così come Gozzano - osserva ancora Ragghianti - nelle 'buone cose di pessimo gusto' aveva coniato per sempre una situazione della vita e del costume borghese ottocentesco. Cacciarini, salvo rare eccezioni (la zuppiera, l'orsa in porcellana) "ha collezionato una serie di oggetti dichiaratamente funzionali e professionali", "una materia di natura morta industriale, con le macchine da scrivere Underwood, la cucitrice di scarpe Stoccarda, gli abat-jour in vetro e metallo regolabili, la fiamma ossidrica, i ventilatori Marelli, i riscaldatori, i cacciaviti, le bottiglie e bottigliette di inchiostri e di birra, di olii e di acidi, i telefoni, i libri, i registri, i calamai di cristallo tagliato, gli astucci, le lampadine, le matite, le penne". E di quegli utensili tende "nella consuetudine immemore" a far dimenticare allo spettatore "le proprietà funzionali e strumentali, la loro destinazione e contingenza": allora, "le cose singole e associate non solo vengono presentate come essiccate collezioni, ma trasferite in una sorta di imbalsamazione che sconfina in un'archeologia remota, un presente o un prossimo passato già leggendario". Poi, notando quanto "nella loro stereometria implacabile, gli oggetti si animino di una vera e propria esaltazione luminosa che si riconduce scientemente alle proiezioni e alle ellissi caravaggesche" Ragghianti insiste sull'accendersi della tensione fino al culmine d'una "catarsi formale non turbata". Dal reale Cacciarini ci trasporta così vicino all'allucinazione, "nel visionario che emerge dal quotidiano" e, similmente alle incisioni, anche in quelle tempere grasse si opera "la trasfigurazione di un reale oggettivo, ma non qualunque, in una visione rasserenata e dominante che si determina in forme assorte, quiete e stabili, e in composizioni anche complesse nell' apparente semplicità, metricamente misurate e stanziate come edifici illuminati nella vampa dell'ultima sera". Gli scenari che Gianni crea con gli oggetti vivono delle atmosfere di luoghi che furono altamente evocativi: l'ufficio di suo nonno, Tobia Cacciarini, tipografo, simile nell'immaginazione alla stanza del detective di Chicago degli anni Trenta - un riferimento al cinema, per lui così importante -;o i meandri del laboratorio, dove si aggirava tra tagliacarte affilati come ghigliottine, cucitrici dentate, barattoli di colla, rifollatrici, riverratrici, presse, punzonatrici": strumenti del lavoro quotidiano che divenivano, ai suoi occhi di bambino, mostri animati e inquietanti, e proiettavano le loro ombre minacciose nei grandi saloni del palazzo Visacci. Oggetti che egli desidera ora conoscere, dipingere, possedere, studiare, per esorcizzare "quell' antica riverenza o timore", destinandoli "a ricevere una sorta di investitura simbolica da parte della coscienza e dei sensi" (Cacciarini nel catalogo di Milano, 1994). In questa via egli muove verso approfondimenti ulteriori: così, nel 1982, espone nuovamente alla Galleria L'Indiano una serie di dipinti da cui scompaiono alcune caratteristiche solo "di studio" che erano ancora nelle composizioni precedenti. Più fiducioso, e forte anche dei riconoscimenti di Ragghianti, Cacciarini - che nel frattempo ha esposto all'estero, alla mostra "Art sans frontières" della Galerie Isy Brachot di Bruxelles e alla Galleria Brookhoven di Amsterdam - trasceglie alcuni elementi, e ne inserisce altri, per creare più movimento. Roberto Tassi, che presenta il catalogo, vi ammira la vitalità e la continuità, pur "in tempi perigliosi e poco favorevoli", della natura morta, la quale, più che un genere, pare essere un eterno modulo, un archetipo che abita nel profondo l'immaginario dell'uomo. Concorde con Ragghianti sull'assenza totale della maschera precaria del trompe-l'oeil, Tassi ricorda che già nella grafica Cacciarini aveva assunto alberi e architetture nella lor frammentarietà, isolati da un grande contesto, proprio per ricostruirli come nature morte a comporre un "preciso dramma". Messi "in rapporto di necessità e precisione, in uno spazio nitido e indefinito insieme", gli oggetti trovano ora nei quadri "un'esistenza notturna" ed un "rapporto, oltre che formale e compositivo, di senso, di presenza della funzione da cui sono stati distolti; un rapporto di contrasto e armonia perché diversa è la loro età e diversa è stata la lor precedente vita". Ed essi non suscitano ironia, anzi "acquistano una nuova bellezza, una magia che sembra destinarli ad altro più misterioso uso" [...] "Non oggetti di antiquariato, ma piccoli, quasi sacri monumenti, patinati dal tocco di mani ormai morte, dal tempo, dalla luce, dal passato che in essi permane, ma anche sottratti a quel tempo, rigenerati in nuovi simboli, in nuove allusioni e fantasmi". Poi, accanto a quelli, altri oggetti di uso quotidiano, semplice: un porta lampada di vetro, occhiali, puntaspilli, nastri perché la "sospensione del tempo di oggi" si scontri e si confonda con la "resurrezione del tempo passato", suscitando in quella fusione "un atmosferadi malinconia" e di "sottilissima angoscia". (Sentimenti che Gianni non nega possano risultare riflessi del suo o del nostro inconscio, ma che egli non prova nel comporre e, nel dipingere: un atto sentito non come lo sfogo di interne inquietudini, ma come fonte inesauribile di "divertimento, gioia e amore per gli oggetti"). Nei dipinti esposti nel 1982, tra cui ad esempio La sfera, L'opalina azzurra o Copper boiler - un sottile sfumato invade la scena, facendo "traballare la certezza dell'interno", come se l'aria fosse anche atmosferica e venisse fatto di pensare ad un 'paesaggio' di natura morta'. Le macchine paiono arretrare arricchendo e rendendo più vago il fondo, mentre l'"oggetto attuale" rimane intatto nella sua "precisione olandese", da protagonista; infine la stoffa rosa rossa o bianca, "incandescente rivolo di luce" che Cacciarini pone a dividere o a mediare i due piani, rende la struttura più complessa, meno intoccabile, ed apre nuovi spiragli di meditazione. Tassi presenterà nuovamente l'opera di Cacciarini nel 1984, insieme a Roberto Coppini, in occasione della personale presso la Galleria Il Torchio di Modena. Nel 1982 Cacciarini espone alla galleria G. R. di Parma e alla mostra collettiva di Pistoia Ir/Realtà Soggettiva a cura di Tommaso Paloscia, mentre nel 1983 partecipa con la galleria Vallardi di La Spezia alla Expo Arte di Bari (dove una sua opera sarà acquistata dalla Pinacoteca cittadina). Altre due personali saranno allestite quell'anno alla Syracuse University di Firenze e alla Vecchia Farmacia di Forte dei Marmi: qui Cacciarini, come nota Tommaso Paloscia ne «La Nazione» del 24 agosto, "gioca con un manichino di tipo annigoniano", ma sceglie di mutare l'impostazione scenica del maestro, ribaltando i piani di luce e ponendo sul proscenio la luminosità viva e bianca, mentre l'immagine del manichino si distende nell'ombra sempre più fitta che consuma via il visibile.
Gli appuntamenti più significativi del 1985, oltre alla collettiva Natura morta presso la Galleria L'indiano di Firenze, sono le mostre personali al Collegio Reale di Spagna di Bologna - con la pubblicazione di una monografia di José Guillermo Valdecasas e Michele Greco - e quella allestite alla Galleria Il Segno Contemporaneo di Brescia, e alla Galleria Pananti di Firenze. Nel catalogo di quest'ultima Pier Carlo Santini (che inviterà poi Cacciarini alla mostra Continuità di un'esperienza nell'ambito della IX Rassegna Nazionale della città di Pistoia), ribadisce l'importanza della 'progettazione architettonica' nei dipinti del Nostro, cioè di quella fase sperimentale in cui l'artista pone e ridispone, toglie, aggiunge e sostituisce oggetti sul tavolo, studiandone attentamente l'interdipendenza, i rapporti di forma e colore, e l'incidere della luce non già artificiale, bensì naturale, sia pure da nord, e dunque mutevole per quantità e tono. Questa scelta di luce lo allontana, secondo Santini, dalla metafisica e dall'iperrealismo, poiché nelle tempere di Cacciarini gli oggetti "non si enfatizzano come presenze mitiche". Nello spazio indefinito in cui sono calate le macchine da scrivere, i manometri, v'è sempre un piccolo richiamo alla quotidianeità domestica - la tazzina da caffè, un bicchiere colmo di vino o un cestino di limoni - a render quelle atmosfere, sempre meno avvolte dallo sfumato, "temi e tratti riconoscibili nel paesaggio della memoria". Ed al rigore con cui, sulla via indicata da Annigoni, Cacciarini aveva riproposto un ritorno alla pittura fondato sul recupero della maestria tecnica", egli fa seguire una condizione emotiva ma non effusiva con ampi margini per trasognati incantamenti". Tra i dipinti esposti quell'anno appare inoltre, quasi fusa nelle nature morte stesse, la figura. Un'esperienza fino ad allora mai tentata, forse anche perché, al tempo in cui Cacciarini aveva frequentato lo studio d'Annigoni, l'anziano maestro non dipingeva più dal modello, ma solo a memoria per i grandi cicli di affreschi. Tuttavia Gianni terrà presente gli insegnamenti appresi per gli oggetti ("In fondo, egli dice, il discorso non cambia poi molto"), desideroso di misurarsi con qualcosa che, pur incutendogli un certo timore, lo attrae in maniera profonda. Tratterà invece nei dipinti una sola volta il paesaggio, preferendo "reinventarlo" nelle incisioni perche, come nel cinema in bianco e nero, così nella grafica, il paesaggio assume un'altra dimensione, fuori dalla realtà, che ancor oggi più lo ispira.
Ma nel 1985 Cacciarini si dedica con passione anche ad un'altra "opera": la ristrutturazione, insieme a Daniele Cariani, delle sale al piano terreno di palazzo Visacci-Guicciardini (l'ufficio-officina di suo padre e di suo nonno), in cui trasferisce lo studio, ed anche l'abitazione, prima in via della Pergola. L'atelier di Borgo degli Albizi è luogo di grandissimo fascino, poiché la bellezza degli spazi, con gli affreschi settecenteschi (le prospettive e le rovine classiche dipinte da Andrea Landini e le figure di Giovanni Cinqui), è esaltata dalle scelte raffinatissime, e talvolta ardite, degli arredi: l'insieme appare notturno e teatrale, palpitante di ombre e luccichii metallici, ma nello stesso tempo intimo e disarmato, come nei dipinti di Cacciarini, dove architetture di oggetti attendono l'appassionato srotolarsi di un nastro di seta. In quelle stanze vivono poltroncine in vimini anni Trenta e sdraie tra piante rigogliose, mobili dell'Ottocento, decò, o disegnati da Cariani, un busto del Granduca Ferdinando III de' Medici, e tante piccole sculture e bozzetti in gesso, sparsi ovunque tra i vasi di fiori ed altri oggetti insoliti, o disposti, secondo l'allestimento di Cariani, lungo la scala a chiocciola secentesca di pietra serena. Nello studio, in cui si penetra dopo aver attraversato il soggiorno illuminato dalla grande finestra semicircolare, sono raccolti, in parte racchiusi in grandi vetrine, gli "oggetti di desiderio", quelli che animano la sua pittura: alcune macchine non hanno forse mai lasciato quei luoghi, altre vi sono state portate, o riportate dallo studio di via della Pergola, altre vi si aggiungeranno, ora che uno spazio più ampio può accoglierle. Tra tutte, un antico torchio giace ancora immobile - ma Cacciarini vuol farlo di nuovo lavorare - accanto all'acciaio fulvo di vecchie caldaie. Quel salone non è solo il luogo di ritiro del pittore, ma uno spazio pienamente vissuto ove la sospensione degli altri ambienti si addensa sugli strumenti dl lavoro di Gianni. Insieme ai cavalletti, alle tempere, alle lastre per l'incisione, troviamo anche un proiettore e uno schermo. Cacciarini colleziona infatti, da anni, pellicole cinematografiche, dando così libero sfogo ad una passione di lunghissima data. Nel cinema - che è stato, fin da bambino, un "richiamo totale, quasi una fissazione maniacale, forse per questo perfino contrastata dai familiari" - trova spunti e conferme per le atmosfere dei suoi quadri, "purché vi siano il culto dell'inquadratura e della composizione, ancora vivi ad esempio in Visconti, ma quasi dimenticati dopo il Sessanta". Nella sua ricca e varia collezione figurano, tra l'altro molti film americani, in particolare di gangsters degli anni Quaranta e Cinquanta, da cui deriva, in parte, l'amore per le macchine, ma anche numerosi di fantascienza, fino a Blade Runner. E poi i grandi classici, da vedere e rivedere, specie quelli con uno dei suoi miti: Ava Gardner. L'attrazione per il linguaggio cinematografico ("ciò che forse mi sarebbe piaciuto portare avanti se non fossi divenuto pittore") lo induce a sperimentare due cortometraggi con oggetti che si animano. Una medesima passione - che traspare del resto in alcuni suoi dipinti, specie nei più recenti - prova egli per il teatro e per l'opera; cura infatti alcuni progetti scenici, come quello, nel 1988, per la commedia settecentesca di Giovan Battista Andreini, scritta per la corte di Francia e messa in scena al castello di Ischia.
Nel 1986, oltre alle rassegne collettive (Conservatorio di San Michele a Pescia, Galleria L'Incontro d'Arte a Roma, La presenza, l'oggetto, la luce alla Galleria Vallardi di La Spezia) si annotano, per la pittura, le mostre all'Arco '86 di Madrid (con la Galleria Michaud di Firenze) e all'Arte Fiera di Bologna (con la Galleria Alain Blondel di Parigi); infine la prima Biennale Internazionale della Grafica Tono Zancanaro di Vico d'Elsa.
L'anno seguente il nostro espone nuovamente alla galleria l'Incontro di Roma, con la presentazione di Dario Micacchi. Ne La pittura del tempo di Gianni Cacciarini Micacchi, evocando i precedenti illustri- le ceste di Caravaggio, il pane imperlato di brina di Vermeer, i frutti di Zurbaran, o i vasi di Morandi, ma anche Baschenis, Munari o, per il tono, Alberto Ziveri - osserva come Cacciarini sia giunto a rendere "tanto straordinaria la materia dei suoi oggetti" da attirare il nostro sguardo verso ed entro la "misteriosa cittadella" in cui essi vivono, "scalzati dal tempo presente", "archeologia industriale in un'era di produzione tecnologia". Nella luce, soprattutto, Cacciarini sembra trovare "l'elemento unificante nell'avventuroso viaggio del banale quotidiano e archeologico al senso umano del tempo e della durata delle cose nel tempo lungo"; la luce, infatti, per divenire metafora della durabilità assume ora un'intensità costante, cacciando le ombre che si addensavano negli sfondi cupi, e rendendo "tutto 'tattile', anche i pensieri e i sentimenti più misteriosi". Così gli oggetti, esaltati come pietre dure, appaiono a Micacchi "scandagli del tempo" che si oppongono alla velocità con la quale sono consumate, nei decenni presenti, cultura ed arte e "ci rendon consapevoli di un tempo altro della vita e dell'immaginazione", recando forse, "il seme di una liberazione". Sempre nel 1987 Gianni espone da Pananti a Firenze e al Castello di Mesola nella mostra La natura morta nell'arte italiana, curata da Vittorio Sgarbi e Laura Gavioli. Questi, nel volume Natura morta contemporanea, edito nel 1988, inserisce i dipinti di Gianni tra gli esempi di "pittura colta", evidenziandone, pur nella scelta del "repertorio tecnologico un po' antiquato, con il sapore dei primi del secolo, in accordo con le sue origini fiorentine", "il taglio dell'immagine sempre rigoroso, geometrizzante, come se, in tralice, le composizioni, mutati gli oggetti, riproducessero il ritmo morandiano".
Nel 1988 Cacciarini, che non ha abbandonato l'incisione, espone alla Biennale della Grafica della Pinacoteca Alberto Martini di Oderzo (dove tornerà anche nel 1990), all'Istituto Italiano di Cultura di Vienna e alla Galleria L'Incontro di Ancona, insieme a Bodini, Cazzaniga, Piacesi, Stelluti e Trubbiani, in occasione dell'edizione di una cartella di sei acqueforti. Per la pittura Gianni partecipa invece all'Expo di Bari e alle collettive della Galleria L'Incontro Arte di Roma, e a quella intitolata Pittura e immagine dell'uomo all'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze dove espone una delle sue ultime opere, l'Autoritratto con distillatore; presenta inoltre alla Galleria Humus di Firenze, un dipinto di grandi dimensioni, Macchine amiche - in cui ritroviamo il panno rosso, di pontormesca memoria.
Proprio all'inizio del 1989 la Galleria Pananti di Firenze dedica a Cacciarini una mostra retrospettiva delle sue incisioni, da quelle ormai "storiche" del 1973 fino al 1988. Nel saggio introduttivo al catalogo (poi ripubblicato nella rivista «Artista» dello stesso anno). Carlo Sisi riflette sugli ultimi mutamenti avvenuti nella pittura di Cacciarini, di cui l'opera grafica è stata, in un certo senso, "la logica preistoria". Nell'introdurre ora, accanto alle macchine celibi, la figura, in particolare sotto forma di autoritratto, Gianni pare sciogliere l'enigma della "pregnante oggettività" delle sue nature morte, laddove la composizione degli oggetti sul piano di posa era già "scrittura ermetica d'una biografia appassionata, cedevole spesso al pudore dei sentimenti, ma percorsa da una vena di calda sensualità". E, se in quegli oggetti rari, scelti per le loro forme seducenti - ma "anche per la disponibilità a divenire traslati simboli" - si avverte "palpabile la trasfusione dell'anima poetica nella minerale sostanza di reperti estratti dal deposito del sogno e di un personalissimo 'bello ideale'", nell'autoritratto Sisi vede esplicita "la palese confessione di un narcisismo sofferto e fecondo, prima solo consegnato alla dialettica segreta dei suoi oggetti-parola". Così, nelle incisioni, fin dalle Viti, traspare, nella solida intelaiatura e nella messa a fuoco delle variate superfici, "l'intima vita che imparenta quei frammenti di natura all'anima e alle vicende dell'artista"; e similmente, ma ampliandosi l'orizzonte prospettico, avviene nelle Fabbriche che divengono "espressioni momunentali del sentimento del tempo, organismi fecondi e matrici di una storia da riscrivere di uno spazio da ricostruire": Sisi non percepisce pessimismo in esse, ma "sospensione e attesa di una visitazione (angelica?) capace di infondere nuova bellezza all'identità perduta". Una bellezza che "Cacciarini individua nei ritagli di realtà che si impongono al suo occhio selettivo e che al pari degli oggetti dipinti, compongono un diario di esperienze vissute, "sempre in cerca di corrispondenze liriche ed estetiche". Infine, la poesia urbana espressa nelle incisioni degli anni più recenti, "fatta di cesure ritmiche di dettagli inaspettati (il disegno dell'inferriata o del cancello, la pelle variegata d'un vecchio muro, il pulsante d'un campanello ottocentesco)", "di brani più sfogati o metri solenni", e la cui "gamma cristallina prevede, in definitiva, le emozioni e i soprassalti dell'immaginazione letteraria, la ricerca pertinace delle forme belle ed eloquenti", evocherà a Sisi un confronto con "la 'realtà di laboratorio' ricreata da certa poesia dopo gli esperimenti di terra ( e parola) bruciata dall'avanguardia". Nei versi di Silvio Ramat si ritrova infatti la stessa lente con cui il pittore, "a specchio del corpo e dell'anima, indaga gli interstizi del mondo circostante come se stesse contando ad una ad una le proprie vene".
Ancora nel 1989 Cacciarini espone i suoi dipinti alla Galleria Cobra di Parigi, alla Galleria Spagnoli a Lugano, a Incontro d'Arte a Roma, e a Firenze, nell'ambite del Salone Internazionale d'Arte; partecipa inoltre alla collettiva In perfetto disordine della Galleria L'Incontro di Ancona. Lì torna anche nel 1990 in due diverse occasioni: la collettiva Immaginazione poetica ed una personale. Nell'introduzione al catalogo di quest'ultima, Franco Simongini analizza le ragioni di un medium come la tempera grassa, scelta da Cacciarini non solo per la libertà che offre di spaziare dall'acquerello alla pittura di materia, con velature talvolta impercettibili che mutano i toni dei colori stessi, ma anche per le possibilità psicologiche, conformi alla sua indole, portata a ricreare per gradi gerte sensazioni, come, per gradi, se ne è presa coscienza. Così anche la luce dei quadri è una luce è una luce mentale che sembra fredda, anzi "gelida nel suo nitore allucinato", ma che "se la guardi con la stessa pazienza calcolata con cui l'artista l'ha creata, senti sull'istante di entrare in una nuova dimensione della realtà, l'aria pulita di un paesaggio che può apparire 'inespressivo', che nasce dalla lenta emozione di salvare un mondo di ordine e chiarezza". Di quell'anno sono inoltre la personale di Buti (Imago delle mie brame) e la collettiva ai Bottini dell'Olio (Livorno), Il reale, l'essenziale, l'ironico.
Nel 1991 le opere di Cacciarini saranno presentate dalla Galleria Marijeke Raaijmakers a Venlo e all'Arte Fiera di Maastricht, ed egli parteciperà alla mostra di Mesola Il ritratto nel Novecento curata da Laura Gravioli e Vittorio Sgarbi, con Il ritratto di Jonathan Turner, critico di fama internazionale. In dicembre le incisioni di Gianni figurano alla Galleria La Soffitta e, durante l'inaugurazione, è presentato un film sulla sua pittura: Le meraviglie del quotidiano di Massimo Becattini con testo di Pier Francesco Listri. L'anno seguente espone a Roma (Galleria Incontro d'arte), al Centro culturale Paggeria di Sassuolo e a Bari presso la Galleria Esposito.
Del 1993, oltre alla personale di pittura presso la Galleria Realisten de l'Aja, si ricorda la mostra di incisioni nuovamente da Pananti a Firenze (e poi a Fabriano), insieme a quelle di Roberto Stelluti. Artisti definiti entrambi, nella presentazione di Gabriele Simongini, "eccentrici", e tesi alla "difficile conquista di una bellezza appartata, sia nei temi che nella perfezione tecnica, vibrante di risonanze profonde", così diverse e lontane dalla banalità di immagini 'pseudomoderne". Simongini nota inoltre che, se l'arte di Cacciarini appare legata, per certi aspetti, al "silenzio dell'abbandono", la sua ricerca incisoria è soprattutto incentrata "su valori formali e compositivi complessivamente autonomi dai soggetti rappresentati". Egli sembra cercare una "metafisica del segno" nel tratto che già per sè possiede "una qualità astrattiva nei confronti della realtà visibile" e dove "le inesauribili variazioni di ritmo dei reticoli e dei segni e le infinite tonalita di grigi sono 'costruzioni' che nascono da un rapporto quasi fisiologico, oltre che mentale con la linea incisa": "per lui la tecnica è una fonte di ispirazione che potenzia la creatività" e nell'hortus conclusus della lastra, inseguendo le avventure della linea, Cacciarini edifica "un mondo parallelo a quello visibile e innervato da strutture nuove". Nello stesso anno l'iter artistico di Gianni è esaminato anche da Giovanna Uzzani ne La pittura in Italia. IL Novecento (II, Milano, Electa), ove si annota come, nelle tavole più recenti, egli si agiunto ad isolare "una forma muta, avvolta di luce acida, in sfondi dai colori aqgressivi e antinaturalistici, evitando così gli equivoci dell'intimismo e giungendo ad una nuova astratta monumentalità".
Dieci tra i più recenti dipinti del nostro sono stati esposti all'inizio del 1994 da Giulio Residori allo Spazio Ergy di Milano, accompapnati da una breve monografia dal titolo Oggetti del desiderio nella quale, oltre all'introduzione di Residori, lo stesso Cacciarini spiega - con parole ed argomenti già ricordati sopra - l'origine dell'attrazione per gli "immoti protagonisti della sua pittura". Ma se nella mostra di Milano figurano soprattutto i dipinti con le immancabili macchine da scrivere(che perfino Uwe Breker - il più grande collezionista del mondo di quello strumento - ed anche la Olivetti gli commissionarono), le lampade elioterapiche, le macchine da caffè, gli scaldabagni, gli spruzzatori in rame accanto a cestine di frutta o le lampade a petrolio intorno a cui s'avvolgono nastri rossi, Cacciarini si dedica molto, in questi tempi, alla figura, ispirato da quella "eccitazione visiva, tattile" che certi grandi del passato, come Pontormo, Rosso, ma anche Velasquez gli suscitano: lo anima la volontà di cambiare sempre "perché se una cosa mi viene a noia è orribile, non c'è più l'interesse della scoperta".
Negli ultimi anni, dal 1991, Gianni, al di fuori dei viaggi all'estero, divide il suo tempo tra Firenze e Lattaia, in Maremma, dove con Daniele Cariani ha sistemato una casa che fa parte di un piccolissimo borgo, "tra boschi e bovi" (il titolo della 'stagione' estiva di mostre e rassegne cinematografiche che i due artisti organizzano). Infatti, dal grande prato orlato da un percorso di rose, si accede ai porcili che offrono, negli stalletti, gli spazi espositivi per fotografie, sculture o pitture (quest'anno le fotografie degli anni Trenta di Felice Andreis e una collettiva di opere contemporanee: Sculture di animali, disseminate anche sul prato). Poi, attraverso una breccia del muro si apre un ambiente basso, quasi una grotta con un gesso di Diana cacciatrice, dove inizia la casa anch'essa pensata come un percorso. Una ripida scala conduce ai piani superiori, dove poltrone e divani sono ricoperti di teli bianchi, e i trionfi di bucrani e pigne sui caminetti, il lampadario di fiori di carta, gli oggetti e i molti dipinti alle pareti, danno un impressione di folta e incessante crescita, come la vegetazione che, dietro la cucina, rigogliosa e potente avvolge senza regola i pali, sale sul muro lasciato sbrecciato, quasi un rudere. Tutto si anima poi negli smalti accesi, lampone e smeraldo, che sottolineano certi ambienti: battiscopa, fregi, pareti intere che illuminano gli oggetti come i nastri di seta lucida nei dipinti di Cacciarini.
A Lattaia Gianni, almeno per ora, non ha mai dipinto: il tempo gli è mancato, ma forse, anche in un futuro gli sarà difficile comporre lontano da Firenze, città a cui è legato da sentimenti contraddittori, ma che molto gli dà sul piano dei rapporti umani, e le atmosfere di quegli scambi portano linfa alla sua pittura. Spesso descritto come un uomo "schivo e aristocratico" Cacciarini, con grande generosità ed entusiasmo, ama invece render partecipi delle sue passioni - come quella del cinema - i molti amici, ma anche i visitatori occasionali che, nelle notti estive sono accolti sul prato di Lattaia. Lì, sul grande schermo, si proiettano, a tema, cult-movies alternati ad altre pellicole insolite.
E siamo così all'oggi; con l'autunno del 1994 un altro ciclo di film si è concluso, e Gianni è tornato a Firenze, tra lo studio che fu di Annigoni, dove la mattina la luce da nord rende appassionante disporre gli oggetti sul tavolo di posa, e le stanze di palazzo Visacci, colme di memoria, ove la fantasia palpita nell'ombra.